Belkis, regina di Saba
I primi anni Trenta portarono alla Scala una recherche in chiave ballettistica, una sorta di nostalgia per un’epoca favolosa, quella del “ballo grande” di Luigi Manzotti, quasi irrimediabilmente perduta.
Nel 1932 Léonide Massine, artista che era stato nella cerchia dei Ballets Russes di Djagilev e aveva debuttato sul palcoscenico del Teatro Lirico nel 1920, provò a conciliare la tradizione scaligera con talune componenti artistiche proprio dei Ballets Russes in Belkis, regina di Saba, su libretto di Claudio Guastalla e musica cantata (con un mezzosoprano, un tenore e il coro) di Ottorino Respighi. Il balletto accoglieva certe suggestioni orientaleggianti basate su temi biblici che erano state tipiche dell’ultimo periodo creativo della compagnia di Djagilev, per esempio nel Fils prodigue di George Balanchine. Un episodio si richiamava direttamente alla scena del dévoilement in Cléopâtre di Fokin, già visto alla Scala vent’anni prima. Lo cita lo stesso librettista Guastalla nei suoi Quaderni: “Nella scena dei veli, Belkis appariva avvolta di sottili bende variopinte, che delle danzatrici svolgevano lentamente, fingendo di lasciar nuda la regina al cospetto di Salomone”.
La storia narrata nel balletto – che alla “prima” del 31 gennaio si ritrovò in coppia con Werther di Massenet – era, infatti, proprio quella della regina biblica ammaliata dalla sapienza del re di Gerusalemme, con variazioni esoteriche e fiabesche sempre riferite dal Guastalla: “Il favoloso viaggio della regina di Saba, la Regina del Mezzodì, come la nominano i Vangeli di Matteo e Luca, che ‘viene dagli estremi limiti della terra’ a Salomone, è narrato dalle leggende ebraiche e arabe con poetica fantasia ricca di prodigi; il Talmud e i commentatori del Corano chiamano Belkis (o Balkis) la regina di Saba e Kitor la sua città e il Corano, nella 34a e più nella 27a sutra, dove narra l’incontro di Salomone con la sabea, sembra un racconto di fate”.
In effetti, la materia fiabesca fu profusa sontuosamente nel grandioso spettacolo che impegnava quattrocento comparse, con seicento costumi nei sette quadri coreografici “spiegati” da una voce recitante (Il narratore, Franco Becci). In un momento di crisi economica, la messinscena costò un milione. Lo storico Luigi Rossi riporta un’anonima recensione nel suo testo dedicato al Ballo alla Scala. “Scene splendide di Nicola Benois, coreografo famoso: Léonide Massine, danzatori di terre lontane fatti venire da Parigi e d’oltre, russi i più; un portentoso giovane danzatore, un ebreo baltico, mi pare, per la parte di Salomone; una principessa caucasica per la parte di Belkis; una nuovissima speranza della scuola scaligera per la parte dell’Araba Fenice: David Lichtenstein, Leila Bederkhan e Attilia Radice”.
Il “portentoso giovane danzatore” era David Lichtenštein, che avrebbe poi modificato il cognome in Lichine, già apprezzato dagli spettatori della Scala tre anni prima, quando – appena diciannovenne – era arrivato a Milano con la compagnia della Rubinštein. Lichtenštein – Lichine impressionò la platea per la sua straordinaria capacità di elevazione e le spiccate doti mimiche ed espressive. Anche la diciassettenne Attilia Radice fu una rivelazione: lo spettacolo, diretto sul podio da Franco Ghione (poi Flavio Sabino) ottenne un successo tanto vibrante che – riporta sempre Luigi Rossi – un quotidiano di New York arrivò a scrivere: “ vale la pena di fare un viaggio dall’America per vederlo”.