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Michail Fokin

Il nome del coreografo e ballerino Michail Michailovič Fokin è legato soprattutto alla Morte del cigno (1907) e a Petruška (1911), due balletti diversissimi entrati nel repertorio del Teatro alla Scala rispettivamente nel 1951 e nel 1920. Quest’artista, – nato a San Pietroburgo il 5 maggio 1880 e scomparso a New York il 22 agosto 1942 –  ha reso un decisivo contributo ai Ballets Russes di Sergej Djagilev, che a lui si affidò per comunanza d’intenti e condivisa Weltanschauung sul mondo dell’arte, consegnandogli tutti gli allestimenti coreografici nella fase di vita iniziale (1909-1912) della sua compagnia. Fokin, però, comparve alla Scala ben prima del debutto milanese dei Ballets Russes (1920): già nel 1911 offriva infatti sul palcoscenico del Piermarini una quarantina di rappresentazioni di Cléopâtre e Shéhérazade, confezionati su misura di Ida Rubinstein e della sua troupe. Le polemiche suscitate dai due “scandalosi” ci ricordano quale fu il ruolo innovativo di Fokin nella storia del balletto.
Cresciuto alla Scuola imperiale annessa al Teatro Mariinskij, diventato elegante danzatore dalla tecnica luminosa e dall’intensa espressività, indi insegnante e maître de ballet, egli si tramutò in coreografo battagliero, deciso a svecchiare i canoni tardo-romantici. Già nel 1904 aveva infatti presentato al direttore dei Teatri imperiali di San Pietroburgo, il libretto di Daphnis et Chloé ma non ricevette ascolto. Il balletto in due atti – poi realizzato con Djagilev, nel 1912, e apparso alla Scala nel 1948 nell’edizione di Nicholas Zverev e Serge Lifar – annunciava certe idee riformatrici, come l’abolizione dei tutù e delle scarpette da punta, ispirate alla danza libera di Isadora Duncan. Se la famosa danzatrice americana a piedi scalzi aveva esercitato un grande fascino sull’immaginario del poco più che ventenne Fokin, la sua influenza si rivelò ancor più decisiva sul futuro teorico alla ricerca di coerenza, naturalezza, espressività in tutto il corpo, e anche di individualismo e unicità nella persona danzante. Tutte caratteristiche ben lontane dall’irreggimentato collettivismo del balletto classico di fine Novecento, messo sotto accusa da Fokin in una famosa lettera spedita al “Times” di Londra il 6 luglio 1914, e in cui, tra l’altro, sono inclusi i cinque punti fondamentali della sua riforma.
In questa importantissima e sintetica speculazione sull’arte coreutica, Fokin rivendicava la necessità di trovare una sagoma nuova per ogni coreografia, in accordo al tema prescelto, al periodo dell’azione e alle sue caratteristiche nazionali, come attestano molti suoi balletti presentati alla Scala: dalle Danze polovesiane a Thamar, con lo scivoloso incedere dei Circassi, da Carnaval allo stesso Petruška, carico di folklore russo. Il coreografo puntava alla serietà e non all’intrattenimento, e ad ottenere un corpo danzante espressivo dalla testa ai piedi e in continua dialettica con un gruppo mosso da personalità individuali, come nell’Uccello di fuoco, il capolavoro su musica di Stravinskij, giunto alla Scala nel 1927. Infine proclamava l’interazione tra le arti che gli riuscì particolarmente bene nell’incontro con quelli che sarebbero diventati i suoi scenografi-pittori d’elezione:Aleksandr Benois e Léon Bakst, indimenticabili compagni di strada, in Petruška, il primo, e in Shéhérazade il secondo.
Peccato che alcuni balletti appartenenti alle prime stagioni parigine dei Ballets Russes, come Les Sylphides (1907) o Le Spectre de la rose (1911) fossero giunti alla Scala dopo la sua morte. Fokin sapeva ammaliare i suoi interpreti, che di lui non facevano che tessere continue lodi. Come Bronislava Nijinska, che lo ricorda anche come primo, entusiasta, scopritore del talento eccezionale del fratello Vaslav Nijinskij, purtroppo mai giunto alla Scala.
Eppure, persino nel gran teatro milanese Fokin seppe dar prova di essere un autentico talent-scout. In Cléopâtre e in Shéhérazade, balletti che inclusero elementi scaligeri, oltre a quelli della compagnia di Ida Rubinstein, egli scelse e lanciò Ettorina Mazzucchelli, futura prima ballerina e soprattutto direttrice, per sedici anni, della Scuola di Ballo del Teatro. Qui Fokin, dopo i debutti con Djagilev del 1920 e 1927, fece il suo ultimo ritorno nel 1936 per creare L’amore delle tre melarance, su musica di Giulio Cesare Sonzogno. Nella sontuosa fiaba con palazzi d’oro e giardini di smeraldo, disegnati da Nicola Benois sulle orme di Bakst e su quelle paterne, si avvertiva ancora la lezione e il ricordo dei Ballets Russes. D’altra parte, la maggiore produzione fokiniana restò legata al suo sodalizio con il grande impresario russo. E traumatica, ancor più che con la Russia e i suoi Teatri imperiali, ne fu la rottura, avvenuta allorché Djagilev impose in qualità di coreografo e all’attenzione del mondo parigino come principale innovatore creativo della compagnia, proprio quel Nijinskij che Fokin aveva scoperto come danzatore. Lo smacco, insopportabile per il sensibile ed egotico Fokin, segnò anche l’equilibrio psicofisico dell’artista, raffinato e intelligente, cui la fortuna aveva arriso dall’infanzia e per tutta la giovinezza. A quasi trentatré anni, età fatale, Fokin sprofondò in una cupa disperazione, da cui si riprese continuando a lavorare e a creare ma che segnò indelebilmente la profonda intensità del suo sguardo di ombre scure.
Dopo un breve periodo a capo dei Ballets Russes di Monte-Carlo di René Blum (1936), Fokin lavorò come libero professionista in Scandinavia prima di stabilirsi definitivamente con l’inseparabile moglie, Vera Fokina, a New York, rifugio di molti ex dei Ballets Russes e di tanti russi emigrée. Da qui egli si mosse per riallestire i lavori creati per Djagilev ed alcune novità: il suo repertorio vanta oltre sessanta titoli, tra i quali L’apprendista stregone e Jota Aragonesa del 1916, Les Elfes (1924), L’epreuve d’amour (1936), Don Giovanni (1936), Les Eléments (1937), Paganini (1939), Barbablù (1941) e Il soldato russo, creato nel 1942, l’anno della sua scomparsa.