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Sergej Djagilev

Nella storia della danza del primo Novecento uno dei ruoli di primo piano spetta non a un coreografo, un danzatore o uno scenografo, ma a un animatore – organizzatore, un direttore di compagnia, un dilettante geniale, audace e preveggente: Sergej Pavlovič Djagilev.
La sua biografia è nota, ma il suo ruolo è spesso frainteso, e ancor oggi nelle note di critici, musicologi o storici in generale egli viene identificato come creatore dei molti balletti di cui invece fu il promotore. Un peccato veniale, se si considera che questo intellettuale, – nato il 19 marzo 1872 nella provincia di Novgorod e scomparso a Venezia, città prediletta, come l’Italia intera, il 19 agosto 1929 -, subito dopo il trasferimento a San Pietroburgo, avvenuto nel 1890,  cominciò a frequentare ambienti letterari e artistici. Studente svogliato, amava la poesia, la pittura e, soprattutto, la musica; si era dedicato alla composizione, senza grande successo, ma di nessuna di queste arti volle fare la sua professione. Scelse invece di unirle tutte alla danza, come successe nel 1909, quando diede vita all’avventura sinergetica dei Ballets Russes.

Eloquenti le parole che, appena ventitreenne, indirizzò in una lettera alla matrigna, Mme Panaev Djagilev: “io sono un ciarlatano, ma pieno di brio, un grande affascinatore, un insolente, un uomo che possiede molta logica e pochi scrupoli; un uomo, sembrerebbe, afflitto da una totale assenza di talento. Tuttavia, credo di aver trovato la mia vera vocazione: il mecenatismo. Per svolgere questa attività non mi manca proprio nulla, tranne il denaro. Ma quello verrà!”. E infatti Djagilev non tardò a imporsi tra artisti e amanti dell’arte, proprio con il suo talento organizzativo. Nel 1898 fondò una rivista, “Il Mondo dell’Arte” (Mir Iskusstva) alla quale collaborarono, per otto anni, scrittori come Rozanov, Merežkovskij o Solovëv, e soprattutto pittori come Serov, Levitan, Korovin, Aleksandr Benois, Somov, Bakst e Golovin, che diventeranno i principali collaboratori dei Ballets Russes.

Dal 1899 al 1901 fu responsabile dell’Annuario dei Teatri imperiali di San Pietroburgo, carica che gli fu revocata non appena emersero la sua incontestabile originalità, il suo orgoglio, il suo gusto per la novità. Djagilev non ne fu turbato: bello, maestoso, seducente, una mèche bianca nella folta capigliatura nera – che gli varrà il soprannome di “cincillà”, elegante con il suo inseparabile monocolo, fedele ai suoi amici, sicuro del suo potere, nel 1905, un’esposizione decisiva per la sua carriera. Sotto l’egida del “Mir Iskusstva” riunì due secoli di pittura e scultura russa: oltre 3000 opere da lui raccolte, che ottennero un tale interesse da richiamare l’attenzione del Salon d’Automne di Parigi. E così, dopo aver rivelato la Russia a se stessa, egli si accinse a farla scoprire agli occidentali nel 1906.

Incoraggiato dalla splendida riuscita dell’esposizione parigina, decise di far conoscere, prima di tutto a Parigi, tutto ciò che il suo Paese offriva di meglio nei differenti settori della sua vita artistica. Nel 1907 portò una serie di concerti, l’anno successivo l’opera Boris Godunov con il famoso basso Šaljapin.

Se ognuno di questi spettacoli si tramutò in trionfo, nessuno poté eguagliare il tripudio che fu riservato agli spettacoli dei Ballets russes presentati nei mesi di maggio e giugno 1909 al Théâtre du Châtelet. Per sontuosità e perfezione, quegli spettacoli s’iscrissero nella storia dell’arte come uno degli avvenimenti maggiori del primo Novecento.
Un tale miracolo non fu frutto del caso bensì dell’intensa collaborazione che Djagilev aveva saputo intrecciare tra musicisti, pittori, danzatori e coreografi. I pittori si chiamavano Benois, Roerich, Bakst, Golovin ed erano da oltre dieci anni ben noti a Djagilev; i musicisti erano Čerepnin, Borodin, Glazunov e Stravinskij che era stato sia scoperto, sia presentato da Djagilev nel corso delle sue serate di concerti, dal 1901 al 1910. Quanto ai ballerini, provenivano tutti dai Teatri imperiali, e se la loro alta nomea non era tale in Russia, di colpo lo divenne a Parigi, con una consacrazione mondiale. Infine un coreografo della nuova scuola, Michel Fokin, giovane, audace e rapito da idee innovative, come Djagilev e Benois, completava la più eccezionale delle troupe che mai si erano viste a teatro in quell’epoca.
Da quei giorni, la vita e il destino di Djagilev si identificarono con quello dei Ballets Russes e questo per vent’anni, e per un buon numero di avvenimenti che si possono annotare come essenziali nella vita artistica contemporanea.
Spirito curioso, inquieto, impaziente di sfoggiare le tendenze d’avanguardia, Djagilev temeva soprattutto di potersi ripetere, e per questo si sbarazzò dell’ispirazione interamente russa dei suoi primi successi. L’influenza di Jean Cocteau, conosciuto nel 1912, la predilezione per i pittori francesi, il desiderio di prevenire l’attualità e di situarsi sempre a prua dei movimenti artistici, lo separarono progressivamente dai suoi primi collaboratori: Benois, Bakst e Fokin. In più il suo carattere violento e decisionista, alimentò le discordie senza riuscire mai a perdonare certe, sia pure importanti, defezioni: quella del prediletto Nijinskij, o di Stravinskij, quando lavorò per Ida Rubinstein , transfuga della sua troupe e sua rivale.

Dopo un’epoca d’euforia, Djagilev conobbe anni difficili durante la Prima guerra mondiale. Allontanatosi definitivamente dalla Russia, in piena Rivoluzione, si trovò senza soldi e senza relazioni facoltose, cui attingere per la sua compagnia privata.
E’ in quest’epoca di crisi che nacque il suo amore per l’Italia. Roma e Venezia furono senz’altro le città a cui si sentì più legato. Della prima apprezzava il clima mediterraneo, le lunghe soste al Pincio e nei caffè. Molte sono le lettere indirizzate a Stravinskij, che a Roma, nel 1911, finì di comporre Petruška, in cui parla delle bellezze della nostra capitale. Venezia, invece, era per lui la città dei riposi, della contemplazione, il luogo prediletto per le soste dalle grandi fatiche delle tournée; proprio a Venezia si spense in una torrida giornata di agosto del 1929: lui che aveva sempre temuto l’acqua, i lunghi viaggi in mare, finì per morire in una città d’acqua…

Dal 1917 in poi le visite italiane dei Ballets Russes furono frequentissime, tra Roma, Napoli, Firenze, Torino, Milano. Qui Djagilev si trasferì nel 1920, dopo un mese di recite (sino al 22 marzo) al Costanzi di Roma. E al Teatro Lirico la sua troupe debuttò dal 27 marzo al 5 aprile. L’anno dopo Djagilev era di nuovo a Roma, al Teatro Costanzi e tutto il grande repertorio dei Ballets Russes sfilò su quel palcoscenico nell’arco di oltre un mese. Passarono poi cinque anni prima che Mister “Cincillà” facesse ritorno in Italia. Il ritorno non avvenne su invito del Teatro alla Scala che Djagilev, come attesta nelle sue lettere, bramava “conquistare”, bensì dalla società Amici di Torino, nella persona del suo fondatore e presidente, Riccardo Gualino. Sembrava che da quell’invito e dalle quattordici recite al Teatro di Torino potessero nascere grandi cose: una scuola coreografica, il serbatoio di una compagnia di balletti per il nostro Paese. Ma le cose andarono altrimenti. Assenti o dissenzienti i critici, distratto il pubblico di fronte alla raffinatezza estetica delle coreografie, delle musiche, delle scene.

La stessa situazione si verificò a Milano con le sole tre recite del 10, 12 e 16 gennaio 1927, al Teatro alla Scala. La cosiddetta intelligencija milanese era rimasta a casa. E i presenti, di fronte agli spettacoli dei Ballets Russes, rimasero disorientati, se non storditi. Evidentemente non si era provveduto a guidare gli spettatori, ancora affezionati al vecchio ballo tardo ottocentesco. E i critici si limitarono, nei casi migliori, a esaltare gli aspetti più esteriori dell’evento come la decorazione, certamente presente ma non determinante in quel genere di spettacoli. Djagilev passò quindi inosservato sul palcoscenico della Scala, o quasi. E quell’indifferenza lo amareggiò moltissimo. Non tornò più in Italia; il destino non gli lasciò il tempo necessario a mutare il gusto degli spettatori e degli esperti. Per la verità tornò in Italia, nell’agosto 1929, per il suo consueto riposo, ma fu quello definitivo.