Sheherazade
Nel 1911, subito dopo il travagliato debutto milanese di Cleopatra, la compagnia di Ida Rubinstein si impegnò in un secondo titolo di Michel Fokin: Shéhérazade, che apparve al Teatro alla Scala il 17 gennaio con un seguito di nove recite. Questo dramma coreografico in un atto, su libretto e con scene e costumi di Léon Bakst, aveva debuttato sulla rapinosa musica di Rimskij-Korsakov all’Opéra di Parigi, il 4 giugno 1910, e i principali interpreti: Ida Rubinstein (Zobeide), Vaslav Nijinskij (lo Schiavo d’oro) e Enrico Cechetti (il sultano Shahriyàr), assieme all’intera troupe dei Ballets Russes, ottennero un vero trionfo. L’Oriente visto da Bakst produsse un tale choc da influenzare la moda parigina per molti anni a seguire.
Non così a Milano: i transfughi dei Ballets Russes, Fokin e la stessa Rubinstein subirono per Shéhérazade lo strascico di polemiche innescate da Cleopatra e alimentate sui giornali dallo stesso coreografo, che accusò il pubblico milanese di essere rimasto indietro nel tempo e ancorato alla concezione teatrale di Luigi Manzotti, l’inventore e coreografo del Ballo Excelsior (1881). La vedova di Manzotti insorse bacchettando i ballerini “futuristi” russi e le loro sconcezze ma Fokin desistette dal criticare ulteriormente il vecchio “ballo grande” italiano poiché all’indomani del debutto di Shéhérazade trovò inaspettatamente dei difensori. “Qualcuno di coloro che misurano la decenza e l’immoralità di un’opera d’arte colle dimensioni della foglia di fico hanno, persino, invocato telegraficamente l’autorità del Presidente del consiglio dei ministri a tutela della verecondia del pubblico della Scala”, scrisse Giovanni Pozza sul “Corriere della Sera” del 18 gennaio 1911. “Dobbiamo augurarci”, soggiunse il celebre critico, “ che la coreografia russa possa, con consenso del pubblico, rinnovare la nostra che muore – se non è già morta- fra le braccia del più stupido e logoro convenzionalismo”.
Il rinnovamento del linguaggio coreutico era già lì a portata di mano in Shéhérazade, e molto più riuscito e esplicito che non in Cleopatra. Eppure non ammaliò il tout Milano neppure col passare del tempo.
Il titolo, sempre in versioni desunte da Fokin, fu infatti ripreso solo nel 1978 e all’inizio degli anni Ottanta, lasciando riposare i suoi scià, le sue odalische, i suoi schiavi negri, indifferente al tragico ammaliamento erotico della vicenda, tratta dall’incipit delle Mille e una Notte, così come alle meraviglie cromatiche create da Bakst, che aveva sovrastato la grande sala di un harem con una cortina verde smeraldo, tra colonne arancio e porte blu cobalto, sotto un cielo di seta blu e oro. Fokin risolse la turgida vicenda con poca pantomima e molta danza sinuosa e libera, con grandi catene umane e raggruppamenti quasi tribali. Ma la novità coreografica, racchiusa anche nel seducente passo a due di Zobeide con lo Schiavo d’oro non aprì ancora brecce, se non di stupito ritegno e di timida curiosità, nella percezione degli spettatori milanesi. (Ma. Gu.)