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Ballets russes

La compagnia dei Ballets Russes, fondata da Sergej Djagilev nel 1909 e scomparsa con la morte del suo patron nel 1929, giunse al Teatro alla Scala in due occasioni: nel 1920, quando fu ospitata al Teatro Lirico, e nel 1927 nella sede principale. In vent’anni d’esistenza questa celebre troupe, che aveva visto la luce il 15 maggio 1909 a Parigi, rivoluzionò il modo di creare, danzare e fruire il balletto del XX secolo.

Transfughi dei Teatri Imperiali di San Pietroburgo e installati nella capitale francese e successivamente a Monte Carlo, i Ballets Russes di Djagilev furono il primo nucleo coreutico a raccogliere attorno a sé artisti delle più varie discipline, scegliendo giovani debuttanti tra i compositori, gli artisti visivi, i pittori, i poeti e gli intellettuali che sarebbero diventati le punte di diamante della creatività della prima metà del Novecento, basti pensare a Igor’ Stravinskij, Claude Debussy, Pablo Picasso, Jean Cocteau, ma anche a grandi ballerini come Vaclav Nižinskij, il maggior danzatore della prima metà del secolo scorso, e a coreografi come Michail Fokin, allo stesso Nižinskij, a Léonide Massine e George Balanchine, autori di capolavori come L’uccello di fuoco, Petruška, La sagra della primavera, Parade, Apollon Musagète, tuttora vivi nei repertori delle maggiori formazioni accademiche.

L’origine dei Ballets Russes è complessa, situata, come è, nel punto d’intersezione di due movimenti innovativi. Il primo esplose alla fine dell’Ottocento in seno a un gruppo di pittori d’avanguardia, ma non solo, che si riunivano attorno alla rivista “Mir iskusstva” fondata da Djagilev; l’altro, rappresentato principalmente da Fokin, riguardava l’ambito coreutico.
Nel primo come nel secondo caso, si trattava di reagire contro la routine e le abitudini ereditate dal secolo precedente. Djagilev raccolse queste forze per far fiorire una forma inedita di spettacolo, e così nacquero i Ballets Russes. Subito noti, all’indomani del debutto in Occidente, come la sintesi vivente di tre arti: musica, danza e scenografia, gli spettacoli di Djagilev non poterono che sorprendere, o irritare, per quanto si allontanavano dal balletto così come era stato concepito sino ad allora. La danza, senza perdere nulla della sua estetica e del suo virtuosismo, tendeva verso moduli nuovi, dove l’espressività giocava un ruolo fondamentale. Se l‘étoile femminile continuava a conservare un ruolo di primo piano, anche i danzatori  si trovarono del tutto riabilitati: i salti di Vaclav Nižinskijj e di Adolph Bolm entusiasmarono il pubblico allo stesso modo dei fouttées di Anna Pavlova o di Tamara Karsavina. L’intero corpo di ballo,  sino a quel momento confinato a un ruolo più che discreto, conquistò un’ampiezza e un potere ancora sconosciuti. Costruite in modo ammirevole da Fokin, certe scene di massa come quelle delle Danze Polovesiane, comparse alla Scala nel 1920, attiravano l’attenzione degli spettatori al pari delle più sorprendenti performance delle étoiles. Ma il tratto veramente dominante di questi spettacoli era sempre e comunque la stretta collaborazione tra coreografi, musicisti e scenografi. E i loro nomi, inseparabili, assicuravano a ogni balletto unità e splendore.

Il primo periodo dell’attività della compagnia – dal 1909 al 1914 – fu eccezionalmente brillante. Ai trionfi si aggiungevano alcuni scandali che non fecero che accrescere il prestigio della troupe. L’uccello di fuoco (a Milano nel 1927) e Shéhérazade (che a Milano non fu mai rappresentato), furono i grandi avvenimenti del 1910. Carnaval, al Teatro Lirico nel 1920, e la ripresa di Giselle suscitarono forse meno clamore; ma la stagione 1911 portò con sé due capolavori di Fokin: Petruška (alla Scala nel 1920) e Le Spectre de la Rose, che a Milano comparve solo nel 1955,ormai non più nell’interpretazione della famosa troupe. L’anno successivo fu segnato da tre “provocazioni”: L’après-midi d’un faune di Nižinskij, uno scandalo, l’ostilità di Fokin che vide passare quasi inosservato il suo Daphnis et Chloé e l’apparizione di Jean Cocteau, che con Dieu Bleu divenne “librettista” per la danza.
Nessuno dei balletti citati comparve alla Scala negli anni presi in considerazione da questo sito, neppure quella
Sagra della primavera che nel 1913 fu il vero e grande scandalo del mondo coreutico-musicale e che alla Scala giunse nell’edizione di Léonide Massine nel 1948.

Durante la Prima guerra mondiale, la troupe si trasfererì a Monte-Carlo, da dove Djagilev organizzò a fatica una tournée negli Stati Uniti. Più tardi, in Spagna e in Portogallo, sembrò addirittura che la sua impresa dovesse precipitare; invece, nel 1917 l’attività riprese, con svariati soggiorni anche in Italia. E va riconosciuto che dopo la Russia moderna e leggendaria e dopo i rievocati fasti d’Oriente, i paesi mediterranei irrorarono di nuove e feconde idee la compagnia. Nell’entourage di Djagilev figuravano ormai come presenze fisse Enrico Cecchetti, il grande maestro di balletto italiano, Léonide Massine, che tante creazioni dovette in seguito riservare alla Scala, i pittori Larionov, Gončarova, Picasso e l’inseparabile Cocteau. Abbandonata definitivamente la Russia, la compagnia trovò il suo centro di gravità a Parigi dove, oltre ai pittori citati, si unirono al gruppo dei “ballerini volanti” Derain, Braque, Matisse, Rouault e i giovani e brillanti compositori del Gruppo dei Sei, tra i quali Darius Milhaud, Francis Poulenc, Georges Auric.

Fu proprio durante questa seconda fase di vita del gruppo – sviluppatasi dal 1917-19 sino al 1929 – che si situano le due apparizioni scaligere. Nella prima, a Scala ancora chiusa per i disastri della guerra, Djagilev ritenne opportuno mostrare ai milanesi le produzioni ballettistiche ancora legate alla Russia e al suo esotismo: così che optò per balletti come Cléopâtre, Petruška, Danze Polovesiane, Carnaval, Papillons, Thamar, più alcune più recenti novità che dalle leggende esotiche spaziavano a soggetti di fantasia, o tratti da autori anche italiani come Contes Russes, La Boutique fantasque, Soleil de nuit e Les Femmes de bonne-humeur (da Goldoni). L’accoglienza non fu quella che avrebbe sperato. Tanto è vero che nel 1927 scelse pezzi, a suo modo di vedere, più rassicuranti o assodati, proprio per onorare lo splendore storico del Teatro alla Scala, come Cimarosiana, L’uccello di fuoco, Le mariage d’Aurore, e una sintesi del secondo atto di Il Lago dei cigni, ma ancora una volta rimase alquanto deluso. Ciononostante, il segno lasciato dai Ballets Russes fruttò nel tempo con il ritorno di coreografi e ballerini che avevano reso immortale questa straordinaria avventura artistica e la ripresa di quasi tutti i suoi principali balletti.