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Chovanščina

(Chovanscina, Chovanschina, Kovancina, Kovantchina, Kovantcina, Kovantschina)

Al Teatro alla Scala il primo aprile 1926 va in scena, per la prima volta in Italia, Chovanščina, dramma storico popolare di Musorgskij su libretto di Stasov, ispirato al complesso e tumultuoso periodo della storia russa degli ultimi decenni del XVII secolo, precedente all’incoronazione di Pietro il Grande. Nell’opera è delineata la lotta tra la Vecchia e la Nuova Russia  attraverso avvenimenti tragici in cui le questioni religiose, sollevate dai Vecchi Credenti, detti anche scismatici, ebbero significative ripercussioni anche in campo politico.  Toscanini affida la regia dell’opera ad Aleksadr Sanin e acconsente alla proposta del regista di commissionare bozzetti e costumi a Nicola Benois, allora agli esordi. Dirige Ettore Panizza. “Chovanščina” è la sprezzante definizione con cui Pietro il Grande bolla, nella lettura di Musorgskij, la congiura ordita nei suoi confronti dal principe Ivan Chovanskij, sostenuto dagli strel’cy e dai Vecchi Credenti, strenui difensori della Russia ortodossa e della tradizione popolare, pronti a immolarsi sul rogo per testimoniare contro lo zar-Anticristo. La critica evidenzia unanime la discrepanza tra  la farraginosità del libretto e “la grandiosità dell’espressione corale e la suggestione coloristica dell’elemento strumentale” (Ambrosiano, 2.3.1926).  Cesari, sul “Corriere”, definisce  toccante l’affresco storico realizzato nelle scene d’insieme in cui il popolo appare nelle sue diverse forme e interpretazioni: “si udì la preghiera dei Vecchi-Credenti, prostrati nella polvere sulla Piazza Rossa di Mosca, elevarsi dolce e fervente… coll’andamento grave e il tono liturgico della canzone religiosa ortodossa… dagli strielzi feroci e dal popolo inebriati di liquori e di speranze venne intonata… l’invocazione al principe Ivan Kovanskij: Padre, padre vieni a noi, come prece di fiducia e di rassegnazione  senza dubbio più pura della coscienza dei torbidi boiardi e degli zar dominatori” (Corriere della Sera, 2.03.1926).  Il pubblico scaligero gratifica interpreti e regia con entusiastici applausi e dimostra di gradire soprattutto la parte corale dell’opera, sostenuta da un’accurata scenografia e una scelta appropriata dei costumi. Tra i cantanti due russi, il tenore Aleksandr Veselovskij, considerato dal critico del Corriere assai adatto a rendere la figura e gli accenti del principe Golicyn con la sua voce “non assai voluminosa, ma dal timbro argentino, pieghevole, talvolta insinuante”, e il basso Ždanovskij che con la rudezza della sua voce   caratterizza con grande efficacia il tipo di Ivan Chovanskij “curioso moscovita, cospiratore e crapulone, metà principe e metà basso da operetta”.

Il 15 marzo 1933 va in scena una nuova edizione di Chovanščina, diretta da Vittorio Gui, con la regia di Mario Frigerio e i bozzetti e i costumi di Nicola Benois. La versione ritmica del libretto, apprezzata per “la scrupolosa e vigilata fedeltà alla prosa russa”, è di Küfferle (Corriere della Sera, 16.3.1933). La critica sottolinea la felice scelta del maestro Gui di riportare il dramma il più possibile vicino alla originaria concezione di Musorgskij, rispetto alla rielaborazione di Rimskij Korsakov, presentando sulla scena scaligera un’edizione che  si differenzia dalla precedente del 1926 per alcuni mutamenti nelle scene, nella disposizione degli atti e per una serie di tagli allo spartito. Nuovo è il penultimo quadro con la partenza del principe Golicyn per l’esilio “narrata in orchestra in un brano che è uno dei più belli e ispirati dell’opera” e il finale con gli strel’cy graziati, quadro che Benois ha approntato con un suggestivo e inedito scenario. Anche il finale del dramma appare radicalmente cambiato: mentre nell’edizione del 1926 si concludeva con l’irrompere in scena dei soldati di Pietro che si fermavano sgomenti davanti al fiammeggiare del rogo, accompagnati dal suono della fanfare dei trombettieri, nell’edizione del 1933 è stato tolto dalla scena il rogo, spostato all’interno dell’isba, ed è stato ripreso il motivo della marcia funebre in sol minore che aveva accompagnato i Vecchi Credenti verso la morte: “Il pubblico, che non vede quindi più il rogo, ode soltanto la preghiera di coloro che vi ardono, la voce lontana dei moribondi nella quale si placa la tempesta delle passioni, degli odi e delle stragi: e l’opera si chiude con un finale straordinariamente emotivo, degno in tutto della musicale nobilità del lavoro” (Il Popolo 15.03.1933). Un’osservazione pienamente condivisa da Paribeni, che apprezza l’eliminazione dal quadro finale della “visione grottesca e macabra dei settari arrostiti”, scena da lui già criticata nell’edizione del 1926, curata da Sanin: “tutto apparve ben studiato, naturale ed espressivo, tranne quella grottesca puerilità del rogo finale sul quale – quasi a proscenio – arrostiscono, allegramente cantando, centinaia di persone con un cero in mano” (Ambrosiano 2.3.1926).
Chovanščina ritorna sulla scena scaligera il 9 febbraio 1949 con la direzione “piena di colore e dall’impronta vigorosa” del maestro Issay Dobrowen, la coreografia è di Leonide Massine e l’allestimento di Nicola Benois. Tra gli interpreti si distinguono tre figure: “Boris Christoff … fluente maestoso Dositeo, Nicola Rossi Lemeni quale principe Kovanski dalla calda vibrante drammaticità e  Fedora Barbieri quale Marfa ardente e commossa” (Corriere della sera 10.2.1949). Abbiati sul “Corriere” non manca di elogiare le scene “tipicamente colorite”, “dense di arditi scorci, di architetture, di simboli” e i “ricchissimi costumi”, mentre il critico dell’”Unità”, pur riconoscendo a Benois l’abilità nell’ideazione dei quadri, ritiene che “siano legati alla tragedia soltanto da un vago filo ambientale”e non riescano a “rendere il clima di tragica verità dell’opera” (L’Unità 10.9.1949).
Chovanščina viene riproposta alla Scala a partire dagli anni Settanta. Il 24 febbraio 1981 vi approda, tra mille difficoltà, una nuova edizione del dramma nell’orchestrazione e strumentazione di Dmitrij Šostakovič. L’allestimento, ideato dal regista Ljubimov in collaborazione con lo scenografo Borovskij  per onorare il centenario della morte di Musorgskij,  presenta, come sottolinea Vittoria Crespi, “un impianto scenico coraggioso, un manifesto della libertà negata” dove “alla smagliante edizione di Rimskij Korsakov, tradotta  alla Scala dalla generosa paletta cromatica di Nicola Benois” si contrappongono inquadrature  che non lasciano spazio alla speranza. (Cf. V. Crespi, Borovsky alla Scala, Associazione Amici della Scala 2008)

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