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Il principe Igor

(Igor’)

“Una mediocre copia del Boris, dovuta a un musicista di forte ingegno, ma di gusti eclettici o in senso superiore dilettanteschi, e insomma a un operista privo di una personalità spiccata”: questo è il giudizio tranchant del musicologo Abbiati (Corriere della Sera, 29 aprile 1951) sull’opera incompiuta di Borodin, Il Principe Igor, incentrata su un episodio della storia russa risalente al 1185, poeticamente narrato nel Canto della schiera di Igor’, uno dei componimenti più affascinanti della letteratura russa antica. Dopo aver inaugurato la stagione 1915-1916, l’opera compare raramente nel repertorio scaligero; viene riproposta soltanto per quattro recite nella stagione 1939-1940, con la regia di Pietro Sharoff , l’interpretazione del basso Grigorij Mel’nik nel ruolo di Končak e la direzione di Franco Capuana. La prima del 28 aprile 1951 con Boris Christoff nel ruolo di  Končak, la direzione e la regia di Issay Dobrowen e la coreografia di Michail Fokine, riprodotta da Nicholas Beriozoff, può dunque essere considerata quasi una novità per il pubblico milanese, fatta eccezione per le Danze Polovesiane spesso incluse nei programmi dei concerti o negli spettacoli di balletto.  Nel 1920  erano state inserite nel repertorio dei Ballets russes,  presentato al Teatro Lirico sotto l’egida della Scala: le danze delle donne e degli arcieri con costumi modulati sulle intonazioni di rosa, di grigio scuro e di viola si erano svolte sullo sfondo delle sorprendenti scenografie di Nikolaj Rerich, che evocava una Russia primitiva attraverso lo spazio infinito della steppa, sovrastato da un cielo dorato-scarlatto.
Nell’edizione del 1951 le scene e i costumi, firmati da Nikolaj Benois, seguono il contrasto musicale tra le melodie russe e quelle di origine orientale che Borodin ha evidenziato nella partitura, ottenendo un suggestivo effetto di poetica drammaticità. L’opera si apre con la visione della piazza di Putivl’ su cui campeggia una chiesa russa, simbolo della lotta dei principi di un territorio di confine dell’Europa cristiana con i non cristiani, con i popoli nomadi delle steppe, e sullo sfondo un cielo scuro screziato dalla luce sinistra dell’eclisse di sole, considerata un presagio funesto. Lo svolgersi della narrazione non richiede una scenografia particolarmente articolata: alla stilizzazione di esterni e interni, caratterizzati dalla tipica architettura in legno e dalla presenza di icone alle pareti, si alterna la veduta panoramica delle steppe dall’orizzonte sconfinato con le jurte e gli stendardi variopinti in primo piano. I costumi dei principi e dei soldati sono un omaggio alla tradizione russa, mentre quelli dei polovesi richiamano un non precisato stile orientale: i guerrieri indossano “superlative” vesti colorate e copricapi intarsiati di crine, ai piedi portano i tipici calzari mongoli con la punta all’insù e le odalische sono avvolte in veli leggeri e fluttuanti. Il pubblico, entusiasta e soprattutto affascinato dalle danze per le quali – a onor del vero – anche Abbiati esprime un’incondizionata ammirazione, decreta per la sala milanese un pieno successo.

 

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