Margherita e Armando
Rudolf Hametovič Nureyev, il più famoso divo del balletto del Novecento e Margot Fonteyn, la diva del balletto inglese, con la quale quello che “Il Corriere della Sera” aveva definito “il fatto nuovo della danza di oggi…un’irresistibile attrazione per il pubblico di tutti i Paesi…” faceva ormai coppia fissa, giusero per la seconda volta alla Scala nel settembre 1966 con il passo a due da Il Corsaro e Marguerite and Armand, titolo italianizzato in Margherita e Armando.
Tratto da La signora delle cameli, di Alexandre Dumas figlio, il balletto in un atto,
un prologo e quattro quadri aveva debuttato il 12 marzo 1963 al Covent Garden di Londra. La scelta di un soggetto sanguigno ed emotivo, caro al melodramma dell’Ottocento (la Traviata di Verdi) era strana, per un maestro di raffinatezze e ritrosie come il neoclassico Frederick Ashton. La vicenda, cui da qualche tempo pensava, fu tuttavia “tagliata” su misura della straordinaria coppia di interpreti, ottenendo un cammeo non solo danzato ma anche agito teatralmente, su musica di Franz Liszt (La lugubre gondola, 1883, e Sonata in si minore, 1854), orchestrata dapprima da Humphrey Searle e poi da Gordon Jacob(1968), con elegantissime scene e proiezioni e non meno eleganti costumi di Cecil Beaton, celebre fotografo, divenuto famoso per il décor del musical e del film My Fair Lady.
Quando giunse alla Scala, nel 1966, sul podio Armando Gatto, i due protagonisti erano circondati da danzatori scaligeri come Aldo Santambrogio (il Duca) e Gildo Cassani, Tano Ferrante, Tiziano Mietto e Angelo Moretto tra gli otto Corteggiatori (unica eccezione Leslie Edwards ma qui nel ruolo del Padre di Armand): segno che il coreografo inglese Ashton aveva concesso il suo breve cammeo perché entrasse nel repertorio milanese. Scene e costumi, per quel debutto, non furono indicati in locandina. D’altra parte, fu la coppia regina inserita nel contesto del Corpo di Ballo della Scala ad attrarre l’attenzione.
Nureyev fu il dominatore assoluto, tanto che il massimo teatro lirico del mondo cominciò a porsi il problema, – vista l’accoglienza trionfale e il consolidarsi di un fenomeno che non sarebbe più tramontato (sino alla prematura scomparsa), di avere finalmente un nuovo divo, là dove trionfavano i soprani e i tenori e, come scrisse il critico Mario Pasi, “dove la fiamma del melodramma ardeva ancora in modo splendido, sotto gli occhi ammirati di tutto il mondo”.
Nel testo, a cura di Vittoria Ottolenghi, che il Teatro alla Scala, nel 2002, dedicò a Rudolf Nureyev, il critico Pasi proseguì la sua riflessione sul portento approdato alla Scala nel 1965. “La faustiana baldanza del giovane russo pareva non avere confini…La rivoluzione del balletto classico, l’ultima cui abbiamo assistito (a metà del secolo scorso, n.d.r.) s’identificò nella sua personalità”.
Un temperamento che in Margherita e Armando tracimava in ogni quadro, in specie nell’ultimo con la spettacolare entrata, avvolto nel mantello che volava dietro di lui nella corsa disperata tutt’intorno alla scena; Margherita morente di tisi sul suo letto, lui, – ormai consapevole dell’ingiustizia patita dall’amata -, disperato.
Margherita e Armando tornò, sempre con la Fonteyn e Nureyev, nella stagione 1969-70, poi il divo non volle più riproporlo, forse perché da lui si era definitivamente staccata, per sopraggiunti limiti di età, la musa Fonteyn. Ma il destino della coreografia di Ashton era di proseguire la sua corsa oltre Nureyev, anche alla Scala, dove Marguerite and Armand ricomparve nella stagione 2004-20’5, interpreti, Syvie Guillem e Massimo Murru.
Ma. Gu.