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Fedor Šaljapin

(Chaliapine, Chaliapin, Scialapin, Scialiapin, Saliapin, Saljapin, Fedor, Feodor, Teodoro)

Il debutto al Teatro alla Scala di Fedor Ivanovič Šaljapin nel ruolo di Mefistofele nell’omonima opera di Arrigo Boito, con la direzione di Arturo Toscanini, il 16 marzo 1901, segna per l’artista russo l’inizio di una sfolgorante carriera sulla scena internazionale. Sconcerto, timore, gioia sono i sentimenti che si alternano nell’animo del cantante nei mesi precedenti all’approdo sul palcoscenico scaligero. All’invito ad interpretare il ruolo di Mefistofele spedito ai primi di maggio del 1900 dal direttore della Scala Giulio Gatti Casazza,  Šaljapin risponde chiedendo un cachet altissimo, 15. 000 franchi per dieci spettacoli, nella speranza di ricevere un rifiuto da parte della direzione, che invece conferma la propria intenzione inviando il contratto. Per preparare il suo ruolo, nell’estate affitta un appartamento a Varazze, dove studia il Mefistofele con l’aiuto dell’amico Sergej Rachmaninov e impara l’italiano. Šaljapin, affiancato da Enrico Caruso nel ruolo di Faust e Emma Carelli nel ruolo di Margherita, riscuote un grande successo. Dell’artista russo viene apprezzata la novità dell’interpretazione; il critico del Corriere lo definisce un “Mefistofele superbo” (g.p., Corriere Teatrale. Scala, Corriere della Sera 17/18.3.1901, n. 75, p. 3): alle pose “diaboliche” convenzionali, suggeritegli da Toscanini, contrappone gesti ed espressioni efficaci, che rivelano doti di grande attore, un trucco accurato e un costume, appositamente disegnato da Golovin,  che sostituisce la giacca e i pantaloni previsti per Mefistofele e considerati da Šaljapin assolutamente inadatti al personaggio.

L’ 8 marzo 1904, in occasione della rappresentazione del  Faust di Charles Gounod, assente da vent’anni dal repertorio scaligero, Šaljapin calca nuovamente la scena del Teatro alla Scala nei panni di Mefistofele  con la soprano Rosina Storchio nel ruolo di Margherita e il tenore Giovanni Zenatello in quello di Faust, con la direzione di Cleofonte Campanini. Šaljapin propone un’interpretazione sui generis di Mefistofele, trasformato in un “demonio burlone” di irresistibile comicità, con cui sorprende il pubblico milanese,  che gli tributa una viva ammirazione. L’11 aprile del 1908 l’artista russo si esibisce di nuovo per cinque sere al Teatro alla Scala, con la direzione di Arturo Toscanini nel Mefistofele di Boito, prefiggendosi innanzitutto, come evidenzia il critico musicale del Corriere, di rendere il significato prettamente demoniaco del personaggio attraverso un’interpretazione del tutto originale che sollecita l’immaginazione del pubblico (Il Mefistofele alla Scala, “Corriere della sera”, 12 .4. 1908, p. 2). Il successo è straordinario: dopo il Prologo tre chiamate a Šaljapin e a Toscanini, accompagnate da un “uragano di applausi”.

L’anno seguente Šaljapin ritorna alla Scala, dove il 14 gennaio va in scena la prima del Boris Godunov di Modest Mussorgskij, a cui seguono otto repliche;  la direzione è di Eduardo Vitale e le scene sono di Aleksandr Golovin. Il cantante russo, che si esibisce in italiano, dà un’ennesima prova del suo talento straordinario: “la figura dello Czar si leva davanti allo spettatore in tutta la sua grandiosità tragica” (Leporello, Rivista Teatrale, “L’illustrazione italiana”, 24 .1. 1909, n. 4, p.84): il pubblico scaligero lo accoglie con grande entusiasmo e numerose sono le chiamate al proscenio. Nelle sue memorie, Šaljapin sottolinea lo straordinario intuito musicale del maestro Vitale ed esprime grande apprezzamento per le voci del coro, ma ricorda anche di aver svolto spesso, durante le prove, il ruolo di regista per aiutare gli artisti italiani a cogliere il senso profondo dell’opera. Guarda con una certa condiscendenza ai costumi dei boiari, che gli ricordano le guardie delle stampe popolari russe, e alla realizzazione pittorica scialba e oleografica dei bozzetti di Golovin. Nel “Corriere della sera” del 6 aprile 1912 si annuncia che alla Scala si sta alacremente preparando La fanciulla di Pskov (Pskovitiana) di Rimskij- Korsakov, dove il ruolo di Ivan il Terribile sarà interpretato da Šaljapin.
L’11 aprile va in scena la prima rappresentazione, in italiano, su libretto di Lev Mej (versione italiana di M. Delines – pseud. di Michail Osipovič Aškinazi – e G. Macchi), a cui seguono cinque repliche fino al 20 aprile. Affiancano l’artista russo, tra gli altri, Ida Cattorini (Principessa Ol’ga), Maria Voluntas (Vlas’evna) e il tenore Bernardo De Muro (Michail Tuča). Le scene e i costumi sono realizzati sui disegni originali di A. Golovin, la direzione è affidata a Tullio Serafin. Il temperato successo dell’opera, calmierato dall’inevitabile confronto con il Boris Godunov, non impedisce ai critici di esprimere grandi apprezzamenti per la parte corale, originale nei ritmi, nella disposizione e nella modulazione delle voci, nella ricchezza degli effetti, e per la voce vibrante e calda del tenore De Muro. Tuttavia il clou dello spettacolo è ancora una volta Šaljapin che, acclamatissimo, ha mostrato tutto il suo talento di “interprete creatore”, rendendo “il personaggio dello Czar truce e sanguinario con verità ed arte insuperabili” (Teatri, “L’illustrazione italiana”, 21.12. 1912, N. 16, p. 390).

Il 29 marzo e il 4 aprile del 1930, dopo quasi vent’anni di assenza, Šaljapin si esibisce, in russo, al Teatro alla Scala nella ripresa del Boris Godunov con la direzione del maestro Giuseppe Del Campo, tra gli interpreti Angelika Kravčenko nel ruolo dell’ostessa e il basso buffo Eugenio Sdanovski nel ruolo di Vaarlam. La messa in scena è di Aleksandr Sanin (Alessandro Sanine), la direzione dell’allestimento scenico di Caramba, i bozzetti delle scene e degli attrezzi di Nicola Benois. L’esito della serata è straordinario, il pubblico accoglie con fervore l’interpretazione di Šaljapin, che nemmeno questa volta smentisce la sua fama non solo di insuperabile cantante, ma anche di grande  attore: “Egli possiede l’arte di esprimere col volto e col gesto ciò che l’animo più che la parola ha bisogno di esteriorizzare” ( G.C. [G. Cesari], La prima del “Boris Godunoff”, “Corriere della Sera”, 30.3.1930, p. 6).

Il 4 febbraio 1931 Šaljapin è di nuovo alla Scala per il Boris Godunov, concertato e diretto dal maestro Del Campo, la messa in scena è di Mario Frigerio, l’allestimento scenico di Caramba e i bozzetti sono di Nicola Benois. Successo scontato per il basso russo, applauditissimo come l’anno precedente da un pubblico scosso dall’intensità espressiva dell’interpretazione, che raggiunge il suo culmine nella scena in cui Boris Godunov in preda al delirio, è perseguitato dalle visioni  dello zarevič  ucciso: un pubblico che manifesta la propria ammirazione, accompagnando la chiusura del secondo quadro del secondo atto con “sei scroscianti unanimi acclamazioni”. I critici musicali, che nelle recensioni al Boris Godunov del 1930 hanno espresso il loro disappunto per la scelta di Šaljapin di cantare in russo,  accolgono  con grande soddisfazione l’esibizione dell’artista in italiano, che rende possibile per tutti seguire la dizione musicale dell’artista e ammirarne  l’intensità espressiva.

Il 22 aprile del 1933, ormai alla fine della carriera, Šaljapin ritorna sulla scena scaligera nelle vesti di Don Basilio nel Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini, diretto dal maestro Franco Ghione; è una rappresentazione per la serata di gala della “Giornata diplomatica” della Fiera Campionaria. Un teatro gremito attende con viva curiosità l’esibizione assolutamente inedita dell’artista russo, affiancato da cantanti noti come Toti del Monte (Rosina), Tito Schipa (Conte Almaviva), Benvenuto Franci (Figaro). Anche questa volta Šaljapin sorprende il pubblico per l’originalità dell’interpretazione, presentando un Don Basilio “dalla comicità caricaturale, talora irresistibile, spesso lontana dalla tradizione o, per lo meno, dalla consuetudine scenica” (Alla Scala. “Il Barbiere di Siviglia”, “Corriere della Sera” 23.4.1933). Il pubblico ne è divertito  e lo applaude con grande  fervore; meno entusiasta della fantasia del basso russo è il critico musicale dell’Ambrosiano, che liquida l’interpretazione come “adatta forse per Chicago o per Mosca, ma non per la Scala” (G.C.P, Due serate di gala alla Scala. “Il Barbiere di Siviglia”, “L’Ambrosiano”, n. 26, 24. 4. 1933, p. 3).

 

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